Tutto comincia con l’arrivo di un pacchetto di campioni di ambre contenenti piccole inclusioni e con la preghiera di un appassionato paleontologo che, conoscendo il mio interesse per la microscopia, vuole sapere da me il modo migliore per fotografarle.
Ragionandoci un po’ sopra, vi sono indubbiamente diversi problemi preliminari da risolvere: la scarsa trasparenza ed il colore proprio dell’ambra, la costante presenza di difetti strutturali come incrinature, graffi, macchie di ossidazione e decomposizione, bolle di aria intrappolate, polvere ed impurità, ammaccature, ecc. ecc.
Poi, quello che per me è stato il problema maggiore di tutti: le troppo grandi dimensioni delle strutture intrappolate nella resina.
Il problema dimensionale rendeva difficile ed esagerato l’utilizzo del classico microscopio, d’altra parte l’utilizzo dello stereo microscopio è si perfetto per guardare in 3D, ma non è per nulla adatto per fotografare in due sole dimensioni, dei soggetti che richiedono sempre l’utilizzo di stack su più piani.
Come era fin troppo facilmente prevedibile, le prime prove sono state un disastro: a causa dell’eccessivo contrasto, le immagini erano troppo incise, di conseguenza la luce incidente rendeva evidente la minima incrinatura o il minimo difetto. Al contrario, se si cercava di ridurre i difetti strutturali abbassando l’illuminazione, si cadeva inevitabilmente su di uno scontato e monotono effetto silhouette.
Oltre tutto, l’illuminazione incidente dava talvolta origine ad un particolare effetto che in microscopia si chiama “Illuminazione Obliqua o IO”, una tecnica che accentua moltissimo tutti i minimi rilievi, le più piccole increspature. Come si vede dalla foto, la tecnica IO va benissimo se lo scopo è mettere in evidenza il delicato disegno e la trama delle ali, ma rende esagerate le pieghe della resina, formate a suo tempo dai movimenti scomposti della zanzara nei suoi disperati tentativi di liberarsi dalla morsa della resina.
Vediamo ancora un caso di immagine inutilizzabile, per poi vedere, subito di seguito, la stessa immagine, ma ottenuta con modalità molto più accurate. Vedremo così meglio le differenze che si ottengono con i due metodi.
Se riguardate un momento la prima foto, quella delle ambre da esaminare, vedrete che l’ambra a sinistra in alto ha sul bordo un minimo puntino scuro. Più esattamente è un acaro, il suo nome Neoliodes Dominicus indica che è tipico della Repubblica Dominicana e, purtroppo, non esiste più da 20 milioni di anni, per cui lo possiamo vedere e studiare solo immerso nell’ambra.
La foto, fatta con la tecnica iniziale della luce incidente, è un concentrato di errori, una vera schifezza !
L’illuminazione si è mal distribuita, secondo le linee preferenziali dell’ambra, creando zone molto illuminate e “bruciate”, a confronto con altre rimaste buie. Sono evidentissime le decine di incrinature e di graffi che il tempo ha solcato sulla tenera resina (capirai, con 20 milioni di anni, c’è n’è stato di tempo a sufficienza per rigarla). E poi bollicine d’aria, le sporcherie varie che inquinavano l’aria di allora, ecc. ecc.
Questo è il livello fotografico da cui sono partito, ho provato diverse tecniche e diversi accorgimenti ed il risultato finale, di cui sono, per ora, soddisfatto, è invece questo:
Sparite le striature, sparite le ammaccature, il contrasto è tornato normale, la foto è accettabile.
La buona pulizia dello sfondo, ha inoltre reso possibile anche il tentativo di rianimare il nostro acaro in una rappresentazione tridimensionale, in grado di rendere molto più efficacemente la forma e la struttura del Neoliodes !
https://youtu.be/vsOFl2yzfis
(Continua)
